Il terreno sale dolcemente dalla strada. Sulla costa, campi arati, interrotti dai sentieri di servizio e da qualche casa colonica trasformata in villa col senno e con i soldi di poi. C’è un viottolo semiasfaltato, che diventa sterrato e porta fino al cancello della proprietà. Alberi a delimitare i confini, una vigna prima della vetta. Sembra impossibile che la città sia proprio lì sotto, dietro Monte Donato, a un chilometro in linea d’aria. E’ lì, ma non si vede, si intravede soltanto, perché il centro storico rimane nascosto dal colle. Al posto delle torri cartolinesche e della skyline della Fiera c’è un quartiere popolare, palazzi e architetture regolari, moderne, espansione sud-est per i nuovi arrivi di decadi ormai trascorse.
Ecco il what if di Wu Ming, quella che in narrativa si definisce un’ucronia. “Se fossimo degli scrittori plurimilionari...” forse andremmo a vivere altrove, ma forse anche no. E se no, allora...
Si è trattato di indagare le ragioni del no e del se, quelle pubbliche e quelle private, nel linguaggio dell’architettura, cioè attraverso una narrazione dello spazio. L’ipotesi era quella di raccontare Wu Ming con un edificio, anzi un insieme di edifici e volumi. Chi siamo, come lavoriamo, come ci spostiamo e cosa ci piacerebbe per la nostra vita e la nostra attività. Ma anche qual è il nostro rapporto con Bologna, l’ex-città che ci ha allevati o accolti e che adesso ci osserva con la coda dell’occhio, incerta se trattarci come discoli troppo cresciuti, o piuttosto dichiararci oversized rispetto alle proprie aspettative di paesone padano.
La sfida era quella di restituire la poliedricità e la complessità di Wu Ming, non solo in quanto officina narrativa, ma anche come ambiente relazionale in cui la scrittura non rimane chiusa tra lo schermo e la tastiera, bensì fuoriesce, si declina e potenzia in modi diversi. Per fare questo era necessario individuare un punto fermo, una radice dalla quale partire, a cui ancorare il progetto, senza che per questo l’àncora diventasse ostacolo alla dinamicità.
Un’impresa che ha spinto Andrea e Francesco a intervistarci sulla nostra storia, sul nostro modus operandi e vivendi.
E’ così che sono giunti a focalizzare il tavolo. Il tavolo di lavoro, quello delle riunioni, dove si discutono gli elaborati, attorno al quale vengono letti a voce alta, commentati, emendati gli scritti del collettivo. Se “Merlino istituì la Tavola Rotonda a somiglianza della sfericità del mondo, in essa perfettamente rappresentato” (Thomas Malory, La morte di Artù, 1485), allora niente più del tavolo rappresenta il lavoro di Wu Ming, che abbiamo sempre definito artigianale piuttosto che artistico. Il valore simbolico dell’oggetto in questione è amplificato dal fatto che si tratta dell’unico bene del collettivo, l’unica costante materiale che ne accompagna le vicende fin dalla nascita. Un modesto tavolo Ikea, carico di significato e di storia, che nel corso degli anni è stato spostato almeno tre volte, a seconda del luogo che veniva scelto come “sede”. Allora ecco l’idea: salvaguardarne sia la caratteristica fondativa sia quella dinamica; mantenere il tavolo come pilastro simbolico del collettivo e allo stesso tempo renderlo trasferibile, compatibile con ogni momento e luogo della nostra attività. Attraverso la modularità e la trasferibilità del tavolo, cioè della scrittura e del brainstorming, si ottiene una malleabilità delle strutture, dei volumi che può creare di volta in volta situazioni, ambienti, interazioni diverse. Non già intorno al tavolo quindi è stata progettata la Wu Ming House, dimora pubblica e privata, bensì complementariamente a esso e alle sue varie funzioni. Contestualmente troviamo altri elementi letterari: il bosco, il labirinto, l’acqua come flusso e come ciclo, che riportano le metafore e le simbologie allo spazio calpestabile e fisico da cui sono scaturite.
Alla fine l’insieme dà vita a una narrazione avvincente, che racconta di noi, della nostra storia e della nostra attività, con la serietà di un saggio e l’immediatezza di un’intervista. Qualcosa che ha tanto poco a che spartire con il buon ritiro collinare di uno scrittore arrivato, quanto più con il luogo d’elezione di un gruppo di scrittori in cammino.
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